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Hai chiuso?

Hai chiuso? Lo hai fatto davvero? Hai davvero chiuso?
La fine di ogni cosa, che sia una relazione,
la frequentazione di un luogo, di un gruppo,
l’appartenenza a un sistema o a un’ideologia,
a un’illusione o a una credenza,
va celebrata con un rito dentro o fuori di te.
Serve un addio, un funerale, un atto che disegni i confini
di quello che è stato e che ora non è più.
Hai celebrato la fine?
Gli altri non l’hanno fatto o non vogliono farlo?
Puoi farlo tu.
Puoi compiere tu il gesto sacro della chiusura,
che mette a tacere il silenzio degli ignavi.
Quando qualcuno muore, per compassione verso il corpo
svuotato di vita si compie il gesto di chiudere gli occhi.
Quando qualcuno muore, si compie il rito della sepoltura,
che restituisce ogni cosa a futuri germogli che non possiamo conoscere.
Chiudere. Puoi chiudere gli occhi delle cose che hai lasciato in sospeso
per entrare senza fardello lì dove ti stanno aspettando.
Chiudere. Non sto dicendo che ti alleggerirà.
Chiudi e ti farà male nel punto esatto in cui continuavi a sperare
che qualcosa potesse cambiare, rinascere, risolvere.
Chiudi e sentirai la resa e il fallimento, questioni di dolore,
dignitosissimo e pieno. Tuo e solo tuo.
Chiudere è importante tanto quanto aprire.
Chiudere significa smettere di regalare sguardi, parole e anche solo pensieri a ciò che è finito, soprattutto se ti ha ferito.
Chiudere non è anestesia.
Chiudere non è una punizione.
Chiudere è l’atto estremo e coraggioso di continuare la propria libera esistenza senza elemosinare altre inutili spiegazioni al passato,
che può continuare a parlare solo quando ti ha insegnato più amore.
Il resto non merita nemmeno un soffio del tuo più leggero respiro,
nemmeno la vibrazione della tua più sottile sinapsi.

Manuela Toto

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